È esattamente un mese che sono ritornata in Italia, dopo l’esperienza di un anno a Muhanga, e le riflessioni sono molte, così come è molta la difficoltà nel riabituarsi alla vita qui ed anche la nostalgia per le persone “lasciate” che mi assale quotidianamente.
È difficile spiegare quello che sto provando, quello che penso, quello che ho trovato qui in Italia e quello che ho “lasciato” a Muhanga; è difficile esprimere tutto l’insieme di emozioni che provo. Mentre ero a Muhanga ho letto un libro di una certa Sabine Kuegler e vorrei usare le sue parole, che ben si adattano alla mia situazione, per cercare di esprimere quello che con le mie parole non sono capace di esprimere.
“Ci abituiamo gradualmente alla nostra vita o, per meglio dire, alla quotidiana sopravvivenza. L’esistenza nella giungla si distingue nettamente dalla vita in Europa. Oggi so che sono due mondi del tutto diversi, due pianeti, anzi, no, due galassie separate.
Ovviamente, sia qui che là vivono persone che devono mangiare, bere e dormire. Tutti abbiamo gli stessi cinque sensi, proviamo amore e odio, mettiamo al mondo bambini e moriamo. Ma le analogie, a mio parere, terminano qui…
La vita qui per me è come un tornado, arriva e mi risucchia, mi prende con sé nel suo vortice di fretta e urgenza, finché arrivo a pensare che il tempo giri più veloce di quanto possa girare io.
Sono circondata da grandi masse di persone alle quali non posso sfuggire… Sono confusa dalle discussioni in famiglia per questioni di soldi, infedeltà, mancanza di amore, dai litigi con i vicini – per cose da niente. Non c’è tempo, soprattutto: non c’è mai abbastanza tempo…
Mi rendo conto che i miei giudizi sono forse troppo sbrigativi e non necessariamente originali, ma ho la sensazione che gli uomini del mondo occidentale vivano in sostanza solo per se stessi, per il loro benessere – senza che riescano a raggiungerlo…
Non voglio condannare in tutto e per tutto la nostra “società del benessere”, ma personalmente nutro l’impressione che ci sia qualcosa che non va con me stessa, che mi manchi qualcosa. Mi guardo intorno nel mio ambiente e mi rendo conto che neppure gli altri stanno meglio di me.
Ovviamente disponiamo di comodità che nel corso degli anni hanno trasformato anche me in una persona viziata: acqua calda corrente, supermercati dove posso comprare tutto ciò che desidero. Elettricità, telefono, televisione, internet…
Eppure a volte di sera mi metto nel letto e mi sorprendo ad avere nostalgia della mia giungla, ne rimpiango il silenzio e la pace. Rimpiango di non poter andare in giro a piedi scalzi, di dovermi vestire e truccare, di avere degli appuntamenti da rispettare. Mi manca svegliarmi la mattina e respirare l’aria dolce della giungla. Sentire sulla pelle il sole che splende sempre, vedere gli alberi sempre verdi e le meravigliose nuvole bianche che lentamente solcano lo sconfinato cielo azzurro.”
Che cosa aggiungere? È tremendamente dura ritornare alla quotidianità italiana ed è ancor più duro cercare di andare controcorrente su certe cose che fanno parte della nostra società. Ora, dopo un anno trascorso a Muhanga, io voglio poter mettere a frutto le cose imparate, voglio riuscire a dare il giusto valore alle cose, voglio cercare di cambiare quello che si può cambiare e portare un po’ di Africa qui in Italia…
Sarebbe stupendo poter vivere anche qui senza tempo, ma purtroppo non è possibile; possiamo però cercare di limitare la frenesia che troppo spesso caratterizza la nostra vita.
Sarebbe bello saper condividere con gli altri quello che si ha per esser felici insieme, invece di volersi godere le cose in solitudine; e questo lo possiamo fare, basta volerlo!
Sarebbe bello poter girare scalzi in totale libertà per le strade, senza sentirsi osservati da tutti e senza esser scambiati per pazzi… purtroppo in questa parte di mondo non è possibile!
Sarebbe bello vivere le cose con più serenità e più ottimismo, invece di imbronciarci ed essere pessimisti alla prima difficoltà; e questo lo possiamo fare, basta volerlo!
Sarebbe bello se tutti quanti ci rendessimo conto e sapessimo apprezzare tutte le cose superflue e non che abbiamo, ma purtroppo in questa parte di mondo tutto è diventato indispensabile, anche cose futili e inutili. E la cosa ancor più grave è che, purtroppo, questa società investe sempre di più su tutto ciò, siamo sempre più convinti che non si possa vivere ed esser felici senza tutte queste cose; eppure vi posso garantire, perché l’ho visto con i miei occhi, che ci sono tantissime persone che, senza possedere chissà quali cose, vivono serenamente, sorridendo ed essendo felici.
Queste mie parole, seppur possono sembrare banali e scontate, credo e spero che possano servire a tutti quanti, me compresa, come spunto di riflessione e, perché no, di cambiamento nello stile di vita. Non vuol essere una predica, non vuol essere un voler insegnare. Non sono parole di una ragazza che si sente “arrivata”, anzi, spero che questo possa essere solo l’inizio!
Queste vogliono però essere parole di una ragazza di 23 anni che, per un anno, ha condiviso tutte le sue giornate con degli amici che abitano a 7000 chilometri dall’Italia e che le hanno insegnato tanto. Una ragazza che vuole, nel suo piccolo, cercare di dar voce a questi amici, perché crede sia giusto e doveroso farlo.
Sono parole di una ragazza che ha camminato per un anno della sua vita con questi amici e che crede di aver bisogno di camminare ancora molto al loro fianco.
Sarebbe bello… tocca a me renderlo possibile oppure no…
Elisa...a Muhanga...
martedì 18 gennaio 2011
martedì 7 dicembre 2010
Un anno è andato via della mia vita...
In una sua canzone Guccini dice “un anno è andato via della mia vita” ed è questo che penso tutti i giorni in questo periodo. Ho trascorso qui a Muhanga un anno della mia vita; un anno passato insieme alla gente di Muhanga,
andando ai campi,
giocando con i bambini,
stando a casa a chiacchierare,
andando a lavorare al SALONGO (lavoro comunitario),
stando al dispensario con le infermiere,
passeggiando per il villaggio,
andando a trovare la gente a casa,
aiutando a costruire le capanne,
facendo la scuola di italiano… un anno vissuto senza un lavoro e un ruolo preciso, semplicemente un anno di vita, senza obblighi né scadenze. Un anno passato cercando di entrare il più possibile nell’ottica africana, nella vita della gente di Muhanga. Un anno di vita vissuta in modo completamente diverso da quella che è la quotidianità in Italia.
Ora manca poco meno di una settimana alla mia partenza e sono alla resa dei conti, perciò mi ritrovo a tirare un po’ le fila su tutto questo anno, su tutte le esperienze fatte, su tutto ciò che ho visto e vissuto.Purtroppo partire vuol anche dire dover lasciare, temporaneamente, tutti i legami, tutte le persone conosciute e questa è la cosa più difficile, soprattutto dover salutare certe persone con cui si è instaurato un legame forte.
Partire e ritornare alla vita italiana sarà sicuramente molto molto dura, ma soprattutto penso sarà difficile non poter vedere e stare con la mia gente… Jaqui, Anna, Desanges, Florance, Marasi, Fidelina, Paulina, Leontina, Nzoli, Egide, Bonné, Prosperina, Mwamini, Françoise, Clarisse, Esperance, Machozi, Devotte, Beatrice, Jeannine, Noela… e tutti i bambini.
Tutti i giorni mi dicono che non potranno mai dimenticarsi di me perché ormai si sono abituati alla mia presenza qui al villaggio;
tutti i giorni mi dicono che avranno nostalgia di me, che gli mancherà l’andare ai campi insieme, il chiacchierare insieme, che i bambini piangeranno il giorno che partirò e mi vedranno salire sulla macchina. Spesso mi chiedono perché non metto su famiglia qui, mi costruisco una casa, cerco i campi e… vivo qui con loro… la mia risposta??? È meglio che non ve la dico!!!
Tutti i giorni mi prendono in giro perché dicono che piangerò quando dovrò salutare tutti e qui le persone adulte non piangono in pubblico.
Beh, io non so se la gente sentirà la mia mancanza, se si dimenticheranno di me oppure no, se i bambini piangeranno vedendomi partire, se un giorno deciderò di venire qui e mettere su famiglia... Quello di cui però sono certa è che io il giorno della partenza, se non prima, piangerò; forse, ma dubito, non verserò lacrime, ma sicuramente il cuore piangerà e se verserò lacrime non me ne vergognerò, anche se qui è da bambini piangere in pubblico.
E non me ne vergognerò perché in un anno questa gente è diventata la mia famiglia, ho acquisito tante mamme, tanti papà, tanti nonni e soprattutto tante sorelle e fratelli.
Forse qualcuno si dimenticherà di me, ma sicuramente non certe persone. Anche io forse dimenticherò qualche volto e qualche nome, ma non saranno molti, perché ad ogni volto potrò associare dei momenti passati insieme e questo mi aiuterà a non dimenticare.
andando ai campi,
giocando con i bambini,
stando a casa a chiacchierare,
andando a lavorare al SALONGO (lavoro comunitario),
stando al dispensario con le infermiere,
passeggiando per il villaggio,
andando a trovare la gente a casa,
aiutando a costruire le capanne,
facendo la scuola di italiano… un anno vissuto senza un lavoro e un ruolo preciso, semplicemente un anno di vita, senza obblighi né scadenze. Un anno passato cercando di entrare il più possibile nell’ottica africana, nella vita della gente di Muhanga. Un anno di vita vissuta in modo completamente diverso da quella che è la quotidianità in Italia.
Ora manca poco meno di una settimana alla mia partenza e sono alla resa dei conti, perciò mi ritrovo a tirare un po’ le fila su tutto questo anno, su tutte le esperienze fatte, su tutto ciò che ho visto e vissuto.Purtroppo partire vuol anche dire dover lasciare, temporaneamente, tutti i legami, tutte le persone conosciute e questa è la cosa più difficile, soprattutto dover salutare certe persone con cui si è instaurato un legame forte.
Partire e ritornare alla vita italiana sarà sicuramente molto molto dura, ma soprattutto penso sarà difficile non poter vedere e stare con la mia gente… Jaqui, Anna, Desanges, Florance, Marasi, Fidelina, Paulina, Leontina, Nzoli, Egide, Bonné, Prosperina, Mwamini, Françoise, Clarisse, Esperance, Machozi, Devotte, Beatrice, Jeannine, Noela… e tutti i bambini.
Tutti i giorni mi dicono che non potranno mai dimenticarsi di me perché ormai si sono abituati alla mia presenza qui al villaggio;
tutti i giorni mi dicono che avranno nostalgia di me, che gli mancherà l’andare ai campi insieme, il chiacchierare insieme, che i bambini piangeranno il giorno che partirò e mi vedranno salire sulla macchina. Spesso mi chiedono perché non metto su famiglia qui, mi costruisco una casa, cerco i campi e… vivo qui con loro… la mia risposta??? È meglio che non ve la dico!!!
Tutti i giorni mi prendono in giro perché dicono che piangerò quando dovrò salutare tutti e qui le persone adulte non piangono in pubblico.
Beh, io non so se la gente sentirà la mia mancanza, se si dimenticheranno di me oppure no, se i bambini piangeranno vedendomi partire, se un giorno deciderò di venire qui e mettere su famiglia... Quello di cui però sono certa è che io il giorno della partenza, se non prima, piangerò; forse, ma dubito, non verserò lacrime, ma sicuramente il cuore piangerà e se verserò lacrime non me ne vergognerò, anche se qui è da bambini piangere in pubblico.
E non me ne vergognerò perché in un anno questa gente è diventata la mia famiglia, ho acquisito tante mamme, tanti papà, tanti nonni e soprattutto tante sorelle e fratelli.
Forse qualcuno si dimenticherà di me, ma sicuramente non certe persone. Anche io forse dimenticherò qualche volto e qualche nome, ma non saranno molti, perché ad ogni volto potrò associare dei momenti passati insieme e questo mi aiuterà a non dimenticare.
venerdì 26 novembre 2010
Una splendida giornata!!!
Stamattina sveglia alle 6.45, come tutte le mattine, prendo il caffè e vado a casa di Anna, la mia mamma muhangese; ieri eravamo rimaste d’accordo che oggi saremmo andate a lavorare nei campi insieme. Arrivo a casa sua e sta cucinando i fagioli. Finisce di cucinarli e mangiamo fagioli e patate dolci; prendiamo le zappe e le corde e partiamo per andare ai campi.
Camminiamo circa mezz’ora e arriviamo in un punto dove vediamo tantissime cavallette che volano. Qui è il periodo delle cavallette, una vera prelibatezza per la gente e anche per me, perciò ci mettiamo a cacciare cavallette. Nel frattempo arriva anche un papà e poi, dopo più di un’ora di caccia, arrivano anche delle mamme e dei ragazzini. Stiamo circa due ore a cacciare cavallette e poi proseguiamo verso il campo, felici e contente del nostro bottino di caccia.
Arriviamo al campo di manioca, che è pieno di erbacce perché è da molto che mamma non va a lavorarci, e ci mettiamo a zappare per togliere le erbacce.
Zappiamo per circa 3 ore, sotto un bel sole caldo, chiacchierando, scherzando, confidandoci; finito di togliere le erbacce andiamo nel campo di fianco, che è sempre di mamma, è togliamo un po’ di manioca, me la carico sulla schiena e ripartiamo per tornare a casa con le nostre zappe.
Arrivate circa a metà strada mi rendo conto che il fagotto che ho sulla schiena con dentro la manioca, le cavallette, le mie scarpe e un foulard di mamma si è aperto e il foulard è caduto. La prima preoccupazione di mamma però non è tanto il foulard, quanto le cavallette…non sia mai che il bottino di caccia vada perso!!! Torniamo indietro un pezzetto e il foulard non si trova, ma per nostra fortuna ci sono delle bambine che stanno andando ai campi nello stesso posto dove eravamo noi, perciò percorrono la stessa strada che abbiamo appena fatto noi… il foulard lo troveranno loro e ce lo faranno avere quando ritorneranno a casa. Possiamo proseguire verso casa, ma ora la manioca la porta mamma, così magari evitiamo di perdere altri pezzi x strada!!!
Sulla strada del ritorno passiamo nel punto in cui Bati, il nostro taglialegna, ha preparato la legna da trasportare fino alla missione, perciò, per non fare il giro a vuoto leghiamo una catasta di legna a testa e ce la carichiamo sulla schiena. Mamma si mette anche il fagotto con la manioca sul dorso, una zappa a testa da portare e siamo pronte per risalire la montagna che ci porta fino a casa.
Arrivate alla missione scarichiamo la legna e mamma mi lascia una parte della manioca che abbiamo raccolto… stasera la mangerò bollita con Conce e Bati.
Accompagno mamma a casa, saluto i miei “fratellini” e “sorelline”, mamma si lava e si prepara per andare a lavorare al dispensario… oggi è di guardia la notte.
Anche io torno a casa, mangio le buonissime scacce che ha cucinato Conce stamattina, mi lavo e vado a recuperare il foulard perso per strada che le bambine hanno ritrovato e lo porto a mamma al dispensario; un bel sorriso per ringraziarmi e me ne torno a casa felice per questa giornata stupenda passata insieme alla mia mamma muhangese!
È stata una giornata faticosa per tutte e due, soprattutto per lei che stamattina presto presto era già andata a 2 km da casa a prendere una catasta di legna per casa sua e aveva già tolto le mahole (delle radici che si mangiano qui) in modo tale che domani ha solo più da cucinarle quando torna dal turno di guardia al dispensario.
Ecco, questa è una giornata tipo di una mamma di Muhanga: dover andare ai campi, preparare da mangiare, fare legna… se poi è un’infermiera deve anche rispettare gli orari di lavoro del dispensario.
Per queste mamme è vita, fatica di tutti i giorni; per me è un qualcosa che faccio ogni tanto. Certo è che in questo modo ti rendi veramente conto di quanto è faticosa la vita per questa gente, ti quanto tutto sia fatica qui.
Passare la giornata insieme è stato molto piacevole, così come è piacevole sentirsi figlia di una madre che non ti ha partorita, ma che ti tratta come se ti avesse portata in grembo per nove mesi.
Camminiamo circa mezz’ora e arriviamo in un punto dove vediamo tantissime cavallette che volano. Qui è il periodo delle cavallette, una vera prelibatezza per la gente e anche per me, perciò ci mettiamo a cacciare cavallette. Nel frattempo arriva anche un papà e poi, dopo più di un’ora di caccia, arrivano anche delle mamme e dei ragazzini. Stiamo circa due ore a cacciare cavallette e poi proseguiamo verso il campo, felici e contente del nostro bottino di caccia.
Arriviamo al campo di manioca, che è pieno di erbacce perché è da molto che mamma non va a lavorarci, e ci mettiamo a zappare per togliere le erbacce.
Zappiamo per circa 3 ore, sotto un bel sole caldo, chiacchierando, scherzando, confidandoci; finito di togliere le erbacce andiamo nel campo di fianco, che è sempre di mamma, è togliamo un po’ di manioca, me la carico sulla schiena e ripartiamo per tornare a casa con le nostre zappe.
Arrivate circa a metà strada mi rendo conto che il fagotto che ho sulla schiena con dentro la manioca, le cavallette, le mie scarpe e un foulard di mamma si è aperto e il foulard è caduto. La prima preoccupazione di mamma però non è tanto il foulard, quanto le cavallette…non sia mai che il bottino di caccia vada perso!!! Torniamo indietro un pezzetto e il foulard non si trova, ma per nostra fortuna ci sono delle bambine che stanno andando ai campi nello stesso posto dove eravamo noi, perciò percorrono la stessa strada che abbiamo appena fatto noi… il foulard lo troveranno loro e ce lo faranno avere quando ritorneranno a casa. Possiamo proseguire verso casa, ma ora la manioca la porta mamma, così magari evitiamo di perdere altri pezzi x strada!!!
Sulla strada del ritorno passiamo nel punto in cui Bati, il nostro taglialegna, ha preparato la legna da trasportare fino alla missione, perciò, per non fare il giro a vuoto leghiamo una catasta di legna a testa e ce la carichiamo sulla schiena. Mamma si mette anche il fagotto con la manioca sul dorso, una zappa a testa da portare e siamo pronte per risalire la montagna che ci porta fino a casa.
Arrivate alla missione scarichiamo la legna e mamma mi lascia una parte della manioca che abbiamo raccolto… stasera la mangerò bollita con Conce e Bati.
Accompagno mamma a casa, saluto i miei “fratellini” e “sorelline”, mamma si lava e si prepara per andare a lavorare al dispensario… oggi è di guardia la notte.
Anche io torno a casa, mangio le buonissime scacce che ha cucinato Conce stamattina, mi lavo e vado a recuperare il foulard perso per strada che le bambine hanno ritrovato e lo porto a mamma al dispensario; un bel sorriso per ringraziarmi e me ne torno a casa felice per questa giornata stupenda passata insieme alla mia mamma muhangese!
È stata una giornata faticosa per tutte e due, soprattutto per lei che stamattina presto presto era già andata a 2 km da casa a prendere una catasta di legna per casa sua e aveva già tolto le mahole (delle radici che si mangiano qui) in modo tale che domani ha solo più da cucinarle quando torna dal turno di guardia al dispensario.
Ecco, questa è una giornata tipo di una mamma di Muhanga: dover andare ai campi, preparare da mangiare, fare legna… se poi è un’infermiera deve anche rispettare gli orari di lavoro del dispensario.
Per queste mamme è vita, fatica di tutti i giorni; per me è un qualcosa che faccio ogni tanto. Certo è che in questo modo ti rendi veramente conto di quanto è faticosa la vita per questa gente, ti quanto tutto sia fatica qui.
Passare la giornata insieme è stato molto piacevole, così come è piacevole sentirsi figlia di una madre che non ti ha partorita, ma che ti tratta come se ti avesse portata in grembo per nove mesi.
venerdì 19 novembre 2010
Muhanga - Kampala: due mondi a "pochi" chilometri di distanza
Un mese: questo è il tempo che mi resta da trascorrere qui a Muhanga, almeno per questa volta…
Lunedì io e Conce siamo rientrate da Kampala, dopo aver accompagnato Silvia all’aeroporto; ultima ospite prima della mia partenza.
Andando a Kampala in pochi giorni vediamo una differenza di condizioni di vita, di strade, di persone, di ritmi di vita, di sicurezza, di benessere che fa sempre riflettere.
Si parte da Muhanga, un piccolo villaggio in mezzo alla foresta, dove la gente vive nelle capanne di fango, sfamandosi con quello che coltiva; dove la carne si mangia una volta ogni tanto quando si ammazza un porcellino d’India che si ha in casa, oppure una gallina o un topolino trovato nei campi o, quando si riescono a mettere da parte un po’ di soldini, la carne della macelleria.
Si arriva a Kampala, grande città piena di palazzoni e villette in mattoni, con grandi supermercati stile occidentale e dove la carne si vende dappertutto e si cucina per strada, sempre pronta per esser venduta alla gente che passa.
Muhanga, dove le uniche macchine che viaggiano sono le macchine della missione o le rare, rarissime, macchine degli organismi che vengono qui o quelle dell’ONU.
Kampala, dove il traffico è un qualcosa di inimmaginabile, dove c’è una quantità di macchine, mini bus, moto, camion e biciclette che è peggio di una grande città italiana. Colonne su colonne di macchine ferme ad un incrocio, con la gente a piedi, in bici o in moto che fa lo slalom per poter passare.
Molto meglio la tranquillità di Muhanga al caos di Kampala!!!
Muhanga, dove la manutenzione della strada, ovviamente non asfaltata, viene fatta dalla popolazione a colpi di zappa, pala e macete, ma che purtroppo spesso e volentieri si rovina con le forti piogge. Allora, il giorno del nostro arrivo, 4 giovani partono al mattino, a piedi, e vanno a 20 chilometri da Muhanga, dove la strada è particolarmente brutta. Lavorano tutta la mattina per cercare di rendere più agevole possibile il nostro passaggio, ma nemmeno questo ci evita di rimanere piantati nel fango. E allora scavi, spingi, togli fango, metti le 4x4… e continui il viaggio…
Kampala, dove tutte le strade, o quasi, sono asfaltate e perciò anche con la pioggia si viaggia senza problemi; dove per asfaltare la strada ci sono camion, draghe e macchinari vari che lavorano.
I cinesi è da tempo che lavorano in Congo per asfaltare le strade e hanno già asfaltato un po’ di chilometri, ma pensare di avere l’asfalto sulla strada di Muhanga è un’utopia…
Muhanga, dove l’essere abbigliati di tutto punto non è prioritario… se non la domenica. Dove i bambini che calzano delle scarpe, o meglio delle ciabattine, sono pochi… se non la domenica. Dove le donne non indossano gioielli di nessun tipo… se non le più “benestanti”, ma solo la domenica o per un matrimonio. Dove non si vedono uomini in giacca e cravatta… se non quando si sposano.
Kampala, dove tutti, tranne i bambini di strada, sono vestiti di tutto punto, tutti i giorni… anche la domenica. Dove i bambini, tranne i bambini di strada, calzano sempre delle scarpe o almeno delle ciabattine, tutti i giorni… anche la domenica. Dove le donne mettono ben in mostra gioielli e orologi di valore, tutti i giorni…anche la domenica, anche ai matrimoni. Dove molti uomini, forse per ragioni di lavoro, sono in giacca e cravatta, tutti i giorni… anche la domenica, anche quando si sposano.
Muhanga, dove costantemente ci sono i fucili: che siano quelli dei FARDC (esercito regolare congolese), dei mai-mai (ribelli congolesi), degli FDLR (esercito regolare ruandese) o dei CNDP (esercito misto congolese - ruandese) poco importa, sempre fucili sono e ad imbracciare quel fucile è sempre un soldato, che per quanto sia bravo ruberà sempre il cibo alla gente e sottometterà sempre questa gente, farà sempre violenza su di loro, che sia fisica o psicologica, deruberà sempre la gente che passa sulla strada e sparerà senza troppi scrupoli quando pensa che sia necessario. Fucili che costringono la gente a non stare in giro quando fa buio; fucili che mettono paura alle mamme se devono andare nei campi lontano; fucili che dovrebbero portare la sicurezza a Muhanga, ma che invece creano solo ulteriore insicurezza. Fucili imbracciati per sentirsi potenti.
Kampala, dove gli unici fucili che si vedono sono quelli dei poliziotti che garantiscono la sicurezza sulla strada o degli agenti di sicurezza che custodiscono supermercati o negozi vari. Fucili che permettono di stare in giro per la città tutta la notte.
Forse leggendo quello che ho scritto uno può pensare che sia meglio vivere a Kampala piuttosto che a Muhanga, ma non è così, almeno non per me. A Muhanga ci sarà anche l’insicurezza, soldati che girano per il villaggio, fango in cui ci si pianta quando si viaggia, bambini mal vestiti e non propriamente puliti, sarà anche un villaggio isolato in mezzo alla foresta, ma forse sono proprio tutte queste cose insieme che rendono Muhanga un posto stupendo, affascinante, un piccolo “paradiso” in cui vivere.
Certo senza fucili si starebbe molto meglio, ma vivere in mezzo a gente così sorridente, poter andare nei campi con loro e lavorare, faticare ridendo e scherzando, poter condividere la quotidianità, poter entrare nelle loro case e sentirsi a casa e non ospite, sentirsi figlia di queste madri e padri, poter rendere felici questi bambini semplicemente stando con loro, giocando con niente insieme, sentirsi parte di tutto ciò è… non so come definirlo, diciamo…EMOZIONANTE… è un qualcosa che mai potrò dimenticare e che so già che mi mancherà tantissimo tra un mese.
Lunedì io e Conce siamo rientrate da Kampala, dopo aver accompagnato Silvia all’aeroporto; ultima ospite prima della mia partenza.
Andando a Kampala in pochi giorni vediamo una differenza di condizioni di vita, di strade, di persone, di ritmi di vita, di sicurezza, di benessere che fa sempre riflettere.
Si parte da Muhanga, un piccolo villaggio in mezzo alla foresta, dove la gente vive nelle capanne di fango, sfamandosi con quello che coltiva; dove la carne si mangia una volta ogni tanto quando si ammazza un porcellino d’India che si ha in casa, oppure una gallina o un topolino trovato nei campi o, quando si riescono a mettere da parte un po’ di soldini, la carne della macelleria.
Si arriva a Kampala, grande città piena di palazzoni e villette in mattoni, con grandi supermercati stile occidentale e dove la carne si vende dappertutto e si cucina per strada, sempre pronta per esser venduta alla gente che passa.
Muhanga, dove le uniche macchine che viaggiano sono le macchine della missione o le rare, rarissime, macchine degli organismi che vengono qui o quelle dell’ONU.
Kampala, dove il traffico è un qualcosa di inimmaginabile, dove c’è una quantità di macchine, mini bus, moto, camion e biciclette che è peggio di una grande città italiana. Colonne su colonne di macchine ferme ad un incrocio, con la gente a piedi, in bici o in moto che fa lo slalom per poter passare.
Molto meglio la tranquillità di Muhanga al caos di Kampala!!!
Muhanga, dove la manutenzione della strada, ovviamente non asfaltata, viene fatta dalla popolazione a colpi di zappa, pala e macete, ma che purtroppo spesso e volentieri si rovina con le forti piogge. Allora, il giorno del nostro arrivo, 4 giovani partono al mattino, a piedi, e vanno a 20 chilometri da Muhanga, dove la strada è particolarmente brutta. Lavorano tutta la mattina per cercare di rendere più agevole possibile il nostro passaggio, ma nemmeno questo ci evita di rimanere piantati nel fango. E allora scavi, spingi, togli fango, metti le 4x4… e continui il viaggio…
Kampala, dove tutte le strade, o quasi, sono asfaltate e perciò anche con la pioggia si viaggia senza problemi; dove per asfaltare la strada ci sono camion, draghe e macchinari vari che lavorano.
I cinesi è da tempo che lavorano in Congo per asfaltare le strade e hanno già asfaltato un po’ di chilometri, ma pensare di avere l’asfalto sulla strada di Muhanga è un’utopia…
Muhanga, dove l’essere abbigliati di tutto punto non è prioritario… se non la domenica. Dove i bambini che calzano delle scarpe, o meglio delle ciabattine, sono pochi… se non la domenica. Dove le donne non indossano gioielli di nessun tipo… se non le più “benestanti”, ma solo la domenica o per un matrimonio. Dove non si vedono uomini in giacca e cravatta… se non quando si sposano.
Kampala, dove tutti, tranne i bambini di strada, sono vestiti di tutto punto, tutti i giorni… anche la domenica. Dove i bambini, tranne i bambini di strada, calzano sempre delle scarpe o almeno delle ciabattine, tutti i giorni… anche la domenica. Dove le donne mettono ben in mostra gioielli e orologi di valore, tutti i giorni…anche la domenica, anche ai matrimoni. Dove molti uomini, forse per ragioni di lavoro, sono in giacca e cravatta, tutti i giorni… anche la domenica, anche quando si sposano.
Muhanga, dove costantemente ci sono i fucili: che siano quelli dei FARDC (esercito regolare congolese), dei mai-mai (ribelli congolesi), degli FDLR (esercito regolare ruandese) o dei CNDP (esercito misto congolese - ruandese) poco importa, sempre fucili sono e ad imbracciare quel fucile è sempre un soldato, che per quanto sia bravo ruberà sempre il cibo alla gente e sottometterà sempre questa gente, farà sempre violenza su di loro, che sia fisica o psicologica, deruberà sempre la gente che passa sulla strada e sparerà senza troppi scrupoli quando pensa che sia necessario. Fucili che costringono la gente a non stare in giro quando fa buio; fucili che mettono paura alle mamme se devono andare nei campi lontano; fucili che dovrebbero portare la sicurezza a Muhanga, ma che invece creano solo ulteriore insicurezza. Fucili imbracciati per sentirsi potenti.
Kampala, dove gli unici fucili che si vedono sono quelli dei poliziotti che garantiscono la sicurezza sulla strada o degli agenti di sicurezza che custodiscono supermercati o negozi vari. Fucili che permettono di stare in giro per la città tutta la notte.
Forse leggendo quello che ho scritto uno può pensare che sia meglio vivere a Kampala piuttosto che a Muhanga, ma non è così, almeno non per me. A Muhanga ci sarà anche l’insicurezza, soldati che girano per il villaggio, fango in cui ci si pianta quando si viaggia, bambini mal vestiti e non propriamente puliti, sarà anche un villaggio isolato in mezzo alla foresta, ma forse sono proprio tutte queste cose insieme che rendono Muhanga un posto stupendo, affascinante, un piccolo “paradiso” in cui vivere.
Certo senza fucili si starebbe molto meglio, ma vivere in mezzo a gente così sorridente, poter andare nei campi con loro e lavorare, faticare ridendo e scherzando, poter condividere la quotidianità, poter entrare nelle loro case e sentirsi a casa e non ospite, sentirsi figlia di queste madri e padri, poter rendere felici questi bambini semplicemente stando con loro, giocando con niente insieme, sentirsi parte di tutto ciò è… non so come definirlo, diciamo…EMOZIONANTE… è un qualcosa che mai potrò dimenticare e che so già che mi mancherà tantissimo tra un mese.
sabato 30 ottobre 2010
Maria è partita...
Maria è partita… qualche giorno fa il suo fidanzato ha portato le capre a casa sua, hanno festeggiato e lei è felice. Felice di aver trovato un uomo che ha i soldi e che la vuole come sua “moglie”, una delle mogli, perché questo tizio, Muhindo Boss, ha già un’altra moglie, ma ora vuole Maria e perciò porta le dieci capre per averla.
Maria, una ragazza di 18 anni, che da anni lavora al dispensario, che da qualche mese lavora anche qui in casa per dare una mano in cucina, soprattutto quando ci sono ospiti… Maria, sempre solare, sorridente, giocherellona, coccolona, che per me è diventata come una sorella in questi mesi, ora diventa donna e decide di andare a Kirumba per seguire il suo uomo. Decide di lasciare parenti, amici e due lavori per seguire Muhindo Boss.
Maria decide di partire stamattina senza nemmeno venire a salutare, senza dirci nulla. Vengo a sapere dalla gente del villaggio che Maria è partita… che tristezza, che rabbia, che delusione… non so descrivere quello che ho provato quando ho ricevuto la notizia, certo è, però, che mi si è spezzato il cuore.
Maria, con cui ho trascorso tantissime giornate nei campi, a casa, al dispensario; Maria, con cui ho condiviso la camera nel periodo in cui ero qui da sola; Maria, con cui ho riso, giocato, scherzato, con cui mi sono confidata; Maria, una delle poche persone che ho chiamato “dada” (sorella) ora se n’è andata, senza nemmeno venirmi a salutare… e questo mi fa male…
Maria, una ragazza di 18 anni, che da anni lavora al dispensario, che da qualche mese lavora anche qui in casa per dare una mano in cucina, soprattutto quando ci sono ospiti… Maria, sempre solare, sorridente, giocherellona, coccolona, che per me è diventata come una sorella in questi mesi, ora diventa donna e decide di andare a Kirumba per seguire il suo uomo. Decide di lasciare parenti, amici e due lavori per seguire Muhindo Boss.
Maria decide di partire stamattina senza nemmeno venire a salutare, senza dirci nulla. Vengo a sapere dalla gente del villaggio che Maria è partita… che tristezza, che rabbia, che delusione… non so descrivere quello che ho provato quando ho ricevuto la notizia, certo è, però, che mi si è spezzato il cuore.
Maria, con cui ho trascorso tantissime giornate nei campi, a casa, al dispensario; Maria, con cui ho condiviso la camera nel periodo in cui ero qui da sola; Maria, con cui ho riso, giocato, scherzato, con cui mi sono confidata; Maria, una delle poche persone che ho chiamato “dada” (sorella) ora se n’è andata, senza nemmeno venirmi a salutare… e questo mi fa male…
giovedì 21 ottobre 2010
Cade la pioggia
Piove, piove e ancora piove… in queste settimane qui in foresta piove tutti i giorni.
Pioggia tutti i giorni vuol dire strade difficili da percorrere, perciò bisogna scendere dalla macchina, scavare, togliere acqua, spingere, tirare, sperare di riuscire a togliersi dal buco in cui si è rimasti intrappolati senza perdere troppe ore.
Quando si è in buona compagnia anche questi imprevisti però diventano un’avventura, da viversi con il sorriso, con gioia…
Pioggia tutti i giorni vuol dire difficile trovare il cibo da mangiare. Il cibo nei campi c’è, ma per averlo in casa bisogna andare al campo con la pioggia, magari riparati da un nailon o da una foglia di banana.
Ieri mattina, con Prosperina e Silvia, la ragazza che sta qui un mese, siamo andate al campo a togliere le erbacce alla manioca appena piantata. Abbiamo lavorato due orette e mezza, torniamo a casa e subito ecco la pioggia arrivare, ma per Prosperina non era più un problema la pioggia… quel giorno aveva fatto il lavoro che aveva programmato di fare e questo per lei era la cosa importante. Non finiva più di ringraziarci: se fosse stata lei da sola nel campo avrebbe dovuto lasciare il lavoro a metà, oppure sarebbe stata costretta a finirlo sotto la pioggia.
È una piccolezza, però fa piacere sapere che il tuo aiuto ha evitato che una mamma con il suo bimbetto di pochi mesi prendessero la pioggia, che la mamma dovesse tornare un altro giorno per finire il lavoro.
Pioggia tutti i giorni vuol dire non riuscire a far seccare la manioca per poi frantumarla e fare la farina per il bugali, perciò una volta finita la scorta di manioca che si ha in casa, o si va a comprare della farina al mulino, oppure si va a togliere delle patate dolci nei campi; qualcosa queste mamme devo pur trovare per sfamare la famiglia…
Ieri pomeriggio, dopo pranzo, sono andata al dispensario e sono rimasta lì un bel po’ a chiacchierare con Anna, Esperance e Mumbere: mi hanno fatto molte domande su com’è la vita in Italia, se anche da noi ci sono i soldati, su come viene gestito il matrimonio, se l’uomo deve pagare per sposare la donna e poi un bel po’ di domande su di me, sulla mia famiglia, sulla mia vita.
Passa il tempo e arriva l’ennesimo temporale, finisce l’orario di lavoro di Anna e Esperance, arriva Clarisse per il turno di notte, Anna si prende il bimbetto di Clarisse, Ansue, e vado con lei a casa sua.
Nel frattempo la pioggia ci lascia un po’ di tranquillità, Anna si rende conto che la farina è sufficiente solo più per il bugali di questa sera e mi dice: “Elisa, prendi Ansue e andiamo a togliere delle patate dolci, perché se no domani non so che cosa dare da mangiare ai bambini”. Partiamo e andiamo al campo; per strada incontriamo una delle figlie di Anna, Silvie, e le diamo il bimbo da portare alla sua mamma. Arrivate al campo Anna inizia a zappare, io la guardo perché abbiamo portato solo una zappa… il mio lavoro era badare ad Ansue. Non mi piace stare lì con le mani in mano, glielo dico e lei mi risponde: “mi hai accompagnata al campo, siamo qui insieme”… questo le basta. Di nuovo la pioggia cade e torniamo di fretta a casa, dicendoci che oggi saremmo ritornate insieme a togliere altre patate dolci, ma anche oggi piove…
Tornando da Kampala, quando sono andata a prendere Conce e Silvia, ci siamo fermati a Beni per prendere la bimba che avevamo accompagnato tempo fa per fare un intervento chirurgico all’orecchio. Fortunatamente l’intervento è andato bene, la bimba sta bene, è felicissima, ma ancora non può tornare a Muhanga, perché deve finire le cure post – operatorie.
Rimane a Kimbulu con la mamma e il fratellino, ma le faccio una foto da portare a vedere al papà e agli altri fratelli, che quando la vedono non si vergognano di sfoggiare un bel sorrisone!
Anche a Beni quel giorno pioveva. Parcheggiati davanti all’ospedale io, Silvia e Gilba rimaniamo imbambolati e divertiti a guardare due ragazzini che giocano a calcio sotto l’acquazzone, nelle pozzanghere, tutti inzuppati di acqua e fango…
Non ci sono play station, computer o altri giochi tecnologici qui, ma fortunatamente non ci sono nemmeno genitori, nonni, fratelli o sorelle maggiori che ti sgridano se stai a giocare sotto l’acquazzone con un tuo amichetto o se torni a casa sporco.
La pioggia qui blocca un po’ tutti i programmi di lavoro nei campi, ma di certo non blocca la gioia dei bambini!
Pioggia tutti i giorni vuol dire strade difficili da percorrere, perciò bisogna scendere dalla macchina, scavare, togliere acqua, spingere, tirare, sperare di riuscire a togliersi dal buco in cui si è rimasti intrappolati senza perdere troppe ore.
Quando si è in buona compagnia anche questi imprevisti però diventano un’avventura, da viversi con il sorriso, con gioia…
Pioggia tutti i giorni vuol dire difficile trovare il cibo da mangiare. Il cibo nei campi c’è, ma per averlo in casa bisogna andare al campo con la pioggia, magari riparati da un nailon o da una foglia di banana.
Ieri mattina, con Prosperina e Silvia, la ragazza che sta qui un mese, siamo andate al campo a togliere le erbacce alla manioca appena piantata. Abbiamo lavorato due orette e mezza, torniamo a casa e subito ecco la pioggia arrivare, ma per Prosperina non era più un problema la pioggia… quel giorno aveva fatto il lavoro che aveva programmato di fare e questo per lei era la cosa importante. Non finiva più di ringraziarci: se fosse stata lei da sola nel campo avrebbe dovuto lasciare il lavoro a metà, oppure sarebbe stata costretta a finirlo sotto la pioggia.
È una piccolezza, però fa piacere sapere che il tuo aiuto ha evitato che una mamma con il suo bimbetto di pochi mesi prendessero la pioggia, che la mamma dovesse tornare un altro giorno per finire il lavoro.
Pioggia tutti i giorni vuol dire non riuscire a far seccare la manioca per poi frantumarla e fare la farina per il bugali, perciò una volta finita la scorta di manioca che si ha in casa, o si va a comprare della farina al mulino, oppure si va a togliere delle patate dolci nei campi; qualcosa queste mamme devo pur trovare per sfamare la famiglia…
Ieri pomeriggio, dopo pranzo, sono andata al dispensario e sono rimasta lì un bel po’ a chiacchierare con Anna, Esperance e Mumbere: mi hanno fatto molte domande su com’è la vita in Italia, se anche da noi ci sono i soldati, su come viene gestito il matrimonio, se l’uomo deve pagare per sposare la donna e poi un bel po’ di domande su di me, sulla mia famiglia, sulla mia vita.
Passa il tempo e arriva l’ennesimo temporale, finisce l’orario di lavoro di Anna e Esperance, arriva Clarisse per il turno di notte, Anna si prende il bimbetto di Clarisse, Ansue, e vado con lei a casa sua.
Nel frattempo la pioggia ci lascia un po’ di tranquillità, Anna si rende conto che la farina è sufficiente solo più per il bugali di questa sera e mi dice: “Elisa, prendi Ansue e andiamo a togliere delle patate dolci, perché se no domani non so che cosa dare da mangiare ai bambini”. Partiamo e andiamo al campo; per strada incontriamo una delle figlie di Anna, Silvie, e le diamo il bimbo da portare alla sua mamma. Arrivate al campo Anna inizia a zappare, io la guardo perché abbiamo portato solo una zappa… il mio lavoro era badare ad Ansue. Non mi piace stare lì con le mani in mano, glielo dico e lei mi risponde: “mi hai accompagnata al campo, siamo qui insieme”… questo le basta. Di nuovo la pioggia cade e torniamo di fretta a casa, dicendoci che oggi saremmo ritornate insieme a togliere altre patate dolci, ma anche oggi piove…
Tornando da Kampala, quando sono andata a prendere Conce e Silvia, ci siamo fermati a Beni per prendere la bimba che avevamo accompagnato tempo fa per fare un intervento chirurgico all’orecchio. Fortunatamente l’intervento è andato bene, la bimba sta bene, è felicissima, ma ancora non può tornare a Muhanga, perché deve finire le cure post – operatorie.
Rimane a Kimbulu con la mamma e il fratellino, ma le faccio una foto da portare a vedere al papà e agli altri fratelli, che quando la vedono non si vergognano di sfoggiare un bel sorrisone!
Anche a Beni quel giorno pioveva. Parcheggiati davanti all’ospedale io, Silvia e Gilba rimaniamo imbambolati e divertiti a guardare due ragazzini che giocano a calcio sotto l’acquazzone, nelle pozzanghere, tutti inzuppati di acqua e fango…
Non ci sono play station, computer o altri giochi tecnologici qui, ma fortunatamente non ci sono nemmeno genitori, nonni, fratelli o sorelle maggiori che ti sgridano se stai a giocare sotto l’acquazzone con un tuo amichetto o se torni a casa sporco.
La pioggia qui blocca un po’ tutti i programmi di lavoro nei campi, ma di certo non blocca la gioia dei bambini!
mercoledì 6 ottobre 2010
Sbalzi d'umore
Dovessi dare un titolo a questo periodo della mia vita, sarebbe: SBALZI D’UMORE
Felice quando
Angela, la bimba di Anna,
smette di piangere se mi vede.
Felice quando
mi cerca per il villaggio
perché vuole stare con me.
Felice quando
si addormenta in braccio
o sulla mia schiena.
Felice quando
vedo quegli occhietti neri
e quei dentini bianchi…
SORRIDE!
Felice quando
è il giorno del SALONGO
perché è bello trasportare
sabbia,
mattoni,
acqua
con queste mamme,
bambini
e papà.
Triste quando
vedo dei piedi
NUDI
e penso alla mia scarpiera
in Italia.
Felice quando
posso tenere tra le mie braccia
una piccola bimbetta
venuta al mondo
da poche ore.
Felice quando
mi fermo ad osservare
ogni piccolo gesto.
Felice quando
mi fermo a riflettere
su ogni piccolo gesto.
Felice quando
non sono posseduta
dal tempo,
ma sono io
a possedere il mio tempo.
Triste quando
la gente mi dice
che i soldati hanno rubato
per l’ennesima volta.
Felice quando
vado nei campi
con Anna e i suoi bambini…
pomeriggio stupendo!
Felice quando
Anna,
Marasi,
Françoise,
Paulina…
mi trattano come una loro figlia.
Triste quando
Jeannette e Luisa
sono tristi
perché hanno perso
il bimbo
che avevano in grembo.
Felice quando
passo una mattinata
con mamme e papà
per mettere il fango
nella casa di Musafiri.
È bello sporcarsi
di fango
dalla testa ai piedi.
È bello
calpestare con i piedi nudi
quel fango
e poi andare
insieme
a mangiare
patate dolci,
fagioli
e bugali.
Un modo per dire
GRAZIE
Alla gente che ha lavorato.
Triste quando
Penso che
tra poco più di
Due mesi
Devo salutare
Tutta questa gente...
Felice quando
Angela, la bimba di Anna,
smette di piangere se mi vede.
Felice quando
mi cerca per il villaggio
perché vuole stare con me.
Felice quando
si addormenta in braccio
o sulla mia schiena.
Felice quando
vedo quegli occhietti neri
e quei dentini bianchi…
SORRIDE!
Felice quando
è il giorno del SALONGO
perché è bello trasportare
sabbia,
mattoni,
acqua
con queste mamme,
bambini
e papà.
Triste quando
vedo dei piedi
NUDI
e penso alla mia scarpiera
in Italia.
Felice quando
posso tenere tra le mie braccia
una piccola bimbetta
venuta al mondo
da poche ore.
Felice quando
mi fermo ad osservare
ogni piccolo gesto.
Felice quando
mi fermo a riflettere
su ogni piccolo gesto.
Felice quando
non sono posseduta
dal tempo,
ma sono io
a possedere il mio tempo.
Triste quando
la gente mi dice
che i soldati hanno rubato
per l’ennesima volta.
Felice quando
vado nei campi
con Anna e i suoi bambini…
pomeriggio stupendo!
Felice quando
Anna,
Marasi,
Françoise,
Paulina…
mi trattano come una loro figlia.
Triste quando
Jeannette e Luisa
sono tristi
perché hanno perso
il bimbo
che avevano in grembo.
Felice quando
passo una mattinata
con mamme e papà
per mettere il fango
nella casa di Musafiri.
È bello sporcarsi
di fango
dalla testa ai piedi.
È bello
calpestare con i piedi nudi
quel fango
e poi andare
insieme
a mangiare
patate dolci,
fagioli
e bugali.
Un modo per dire
GRAZIE
Alla gente che ha lavorato.
Triste quando
Penso che
tra poco più di
Due mesi
Devo salutare
Tutta questa gente...
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